TESTIMONIANZE DI DONNE MONZESI
LA DONNA
DALL’ANTIFASCISMO - ALLA RESISTENZA - AI GIORNI NOSTRI
A cura della Commissione Scuola e Cultura dell’ANPI di Monza
Le abbiamo raccolte in un elaborato dattiloscritto, e presentato con la partecipazione delle protagoniste, ospite Gisella Floreanini, in un bel pomeriggio dell'ottobre 1983, al NEI di Monza.
Per chi come me ha vissuto quella giornata non se la dimenticherà mai. Abbiamo avuto la fortuna di parlare con delle donne tanto importanti e tanto umili come spesso accade quando si è alla presenza di persone speciali.
Milena Bracesco
testimonianza di | raccolta da | ||
“Se i muri di quell'osteria potessero parlare...” | Maria Farina Bracesco | Milena Bracesco | |
“Un'infanzia senza spensieratezza” | Eugenia Farè | ||
“Rifiutarono un caffè dal sapore fascista” | Maria Galetti vedova Robecchi Augusta Merati |
Milena Bracesco | |
“Il castigo peggiore quando ero bambina: non andare ai comizi” | Paola Giannella | Giovanna Meroni | |
“Da Hartheim, tristissimo castello di eutanasia, il suo uomo non fece più ritorno” | Maria Parma | Milena Bracesco | |
“'SOCCORSO ROSSO' è stato il suo campo d'azione nella lotta partigiana” | Matilde Parma | Milena Bracesco | |
“Appena adolescente, diffondeva la stampa clandestina” | Elisa Pezzotta | Giovanna Meroni | |
“Il sindacato è stato per lei una scuola di vita” | Maria Riva Biffi | Franca Meneghini | |
“L’unica volta che sparò si spaventò moltissimo” | Angela Ronchi | Aurora Belli | |
“Un lungo pellegrinaggio per cercare il figlio diciassettenne” | Elena Vicari | Giovanna Meroni | |
“Seri granda, forta e spavalda” | Maria Vismara | Silvia Lalia |
Maria Farina Bracesco“Se i muri di quell'osteria potessero parlare...” |
Era una cellula del partito comunista e il centro di collegamento dell’organizzazione clandestina dove passarono tutti i partigiani, i vivi e i morti. Maria, tra un piatto e l’altro, collaborava come messaggera.
È una donna minuta, intelligente, dinamica. Negli occhi le si legge il profondo amore che nutre per suo marito Carlo. Da ogni atteggiamento, da ogni sua parola, traspare la forza, quella sua forza silenziosa ma ben determinata che le è servita, e ancora le serve, per restare accanto a suo marito, Carlo Bracesco, antifascista, combattente, militante comunista, consigliere comunale e, attualmente Presidente Onorario dell'Anpi di Monza.
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Eugenia Farè“Un'infanzia senza spensieratezza” |
Ancora bambina ha dovuto confrontarsi con adulti che lottavano e morivano per la libertà e la democrazia. E la scuola? Era un vivaio di formazione fascista ma ogni tanto incontrava una “pianta diversa”
Eugenia Farè, nata a Milano il 27 marzo 1921. Nel 1929 con la madre e lo zio Enrico si è trasferita a Lissone e successivamente a Monza. Qui ha frequentato il Ginnasio – Liceo Classico “Zucchi”, ha svolto la sua attività di insegnante presso la scuola media “Zucchi”. La sua attività politica: prima e dopo il ’45, è stata Consigliere comunale per 18 anni per il P.S.I. e per altri 3 anni per il P.C.I. Attualmente è, dal 1968, preside di una scuola media a Lissone. Prima del 1940 Confesso che sono piuttosto imbarazzata perché non credo che quanto mi accingo a dire rappresenti qualcosa di nuovo o di eccezionale. Non so neppure se altre amiche, altre donne, si riconosceranno nelle mie parole. La mia è un’esperienza personale e forse per chiarire meglio il mio pensiero occorre una premessa. Sono nata e vissuta in una famiglia un po’ diversa dalle altre che mi vivevano accanto. La mia infanzia non è stata felice se con questo termine si intende spensierata, gioiosa e completamente serena. I miei primi anni sono trascorsi nell’incubo delle perquisizioni notturne dei fascisti, degli arresti di mio zio che viveva con noi, prima e dopo la morte di mio padre. Per sottrarmi a questi, che oggi si chiamerebbero “traumi”, i miei genitori mi misero per un paio d’anni in collegio dal quale uscii per andare a vivere a Lissone. Non fu divertente né l’uno né l’altro soggiorno. Non ero iscritta all’Opera Nazionale Balilla e perciò la mia maestra mi mise in un banco isolato. Non si frequentava la chiesa e perciò non erano molte le compagne di classe che mi frequentavano. Però, nonostante ciò,mi sentivo fortunata perché vivevo accanto ad una persona che mi trattava da adulta. Parlavo con i suoi amici che venivano da Milano, leggevo, allora, libri di cui altre bambine ignoravano l’esistenza. A Monza le cose cambiarono un poco, non molto. Continuammo a vivere senza molti amici, ma i pochi erano per me persone favolose. Erano i vecchi socialisti Motta, Crippa, Piazza, Fumagalli, a cui più tardi si aggiunse l’on. Riboldi, comunista, quando uscì dal carcere. Da loro ascoltavo parole che a scuola erano proibite, conoscevo vicende di cui non si poteva parlare, ma che mi aiutavano a capire il mondo in cui vivevo e a sottrarmi al condizionamento della stampa e della scuola,fasciste o fascistizzate. Tutto sommato, mi consideravo una privilegiata, anche se la mia vita non era simile a quella dei miei coetanei, ai quali (l’ho saputo di recente) incutevo una certa soggezione, perché mi sentivano diversa. Quando alla fine del liceo ebbi qualche insegnante non propriamente in linea con i tempi, mi parve di fare una scoperta nuova. Mi bastava una sfumatura, l’uso di un aggettivo, un commento appena accennato per riconoscere un amico, uno “non in linea” con la politica del tempo. Purtroppo anch’io, come tutti, allora ero iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio perché ad un certo punto, per evitare diserzioni, era automatica l’iscrizione. Si pagava la tessera insieme con le tasse di frequenza alla scuola. Ed allora bisognava avere una certa fantasia per sottrarsi all’obbligo delle adunate, delle sfilate in divisa. A date fisse anche gli insegnanti erano costretti a indossare la divisa durante le lezioni e, poiché non tutti erano dei “fusti”, mi liberavo dell’atmosfera cogliendo gli aspetti comici. La scuola era aperta a maschi e femmine, ma qualcuno sosteneva che noi ragazze avremmo dovuto restarcene a casa a fare le casalinghe, le sartine, magari le dattilografe. Ricordo, ad esempio, un tema assegnato per concorso, che dava la misura del concetto che si aveva della donna: “Oggi sei figlia e sorella, domani sarai sposa e madre, ecc.” Era la casa il posto della donna. Non per nulla era stata istituita la tassa sul celibato, per gli uomini fino ai cinquant’anni. Non si concepiva che la donna si sottraesse volontariamente al compito di essere moglie e madre. E soprattutto madre prolifica. Io la pensavo diversamente e mi irritava questa sottovalutazione della posizione della donna, delle sue capacità, del suo diritto a partecipare alla costruzione della società. In queste mie convinzioni mi incoraggiava una serie di letture e di discussioni che facevo con gli amici di casa e, soprattutto l’esempio e le parole di mia madre. La guerra. Finivo il liceo quando scoppiò la guerra. Ricordo che poco prima, nella primavera, una mattina trovai la scuola quasi deserta perché i miei compagni stavano partecipando ad una manifestazione, chiaramente pilotata, a favore dell’intervento. In classe eravamo in poche ragazze e fra queste una, con la quale ero diventata amica dopo la promulgazione delle leggi razziali. Era figlia di una donna ebrea. C’era anche l’insegnante, l’unica donna del corpo docente, esclusa quella di educazione fisica, la quale ci chiese perché non avevamo partecipato alla manifestazione. Risposi: “Perché la guerra non mi piace”; rimase zitta, ma anni dopo la ritrovai ad una manifestazione di insegnanti democratici. Era la stessa insegnante che al suo arrivo al Liceo aveva provocato il commento di un professore, valentissimo professionalmente: “Adesso ci mancano anche le donne!”. Era questo l’insegnante che, non ricordo per quale episodio di “indisciplina” ci aveva minacciati così: “I miei Soldati che non mi obbedivano li mandavo sull’Amba Aradam”, riferendosi alla guerra per la conquista dell’Abissinia. L’Università mi aprì un mondo nuovo, diverso. Il clima della guerra, anziché rendere più passivi gli antifascisti veri, aveva accentuato l’avversione al regime ed anche molti giovani che collaboravano al giornale ”Libero moschetto” avevano assunto posizioni di fronda. Ne conobbi alcuni che mi proposero di lavorare con loro, ma preferii limitarmi ad operare a Monza. A Monza intorno al 1942 si era formato il Fronte nazionale antifascista. Nello studio dello zio (allora in via Parravicini l’attuale via Gramsci,) dove lavoravano anche Ezio Riboldi e Oreste Pennati, si incontravano antifascisti di varie posizioni politiche. Mi chiesero una certa collaborazione, sia pure modesta e me ne sentii profondamente onorata, soprattutto in quanto donna. In fondo non era molto quello che dovevo fare: raccogliere e trasmettere messaggi in codice, battere a macchina qualche appunto molto “innocente” e accessibile solo agli interessati, ecc. Non mi pareva che ciò bastasse e così quando nel 1943 si formarono i Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Volontari della Libertà, vi aderii subito, invitata da una amica –Lina Riva - che lavorava nel negozio Carnelli e che teneva i contatti con Milano. A mia volta formai una piccola cellula con alcune altre giovani monzesi e iniziammo il lavoro. Non credo sia necessario dilungarsi molto per chiarire gli obiettivi del movimento. Nessuna preclusione ideologica, purchè ci fosse concordanza su alcuni obiettivi di fondo, quali una diversa concezione della posizione della donna nella società e il riconoscimento dei suoi diritti di parità assoluta con l’uomo e di partecipazione alla vita politica e sociale; rifiuto del nazifascismo e della guerra; una nuova società che doveva nascere da una costituzione diversa; non si discuteva ancora se dovesse esserci una monarchia costituzionale o una repubblica. Un giorno mi incaricarono di prendere contatti con un rappresentante del mondo cattolico. Mi diedero il nome della via, mi descrissero la casa, mi dissero a quale piano sarei dovuta salire. Mancava il nome, e ciò era normale. Ci andai, bussai e mi trovai davanti Emilia Mosca, una compagna di Liceo. Tutto da rifare? Decidemmo lì per lì che non era il caso. Ognuna era impegnata a mantenere il segreto, in caso di arresto, almeno per un certo periodo, tanto da consentire al gruppo di riorganizzarsi. Ogni tanto compivamo qualche gesto “dimostrativo”. In occasione dell’8 marzo del 1945 andammo, con mezzi diversi e per vie diverse, al cimitero a deporre fiori sulle tombe di fucilati o di vecchi antifascisti. Con me quel giorno c’era Ida Citterio e, se ben ricordo, Iride Messa, la dattilografa di Riboldi, che collaborava con noi. Ricordo che Ida, la quale forse già sapeva che il fratello Gianni era morto, mi disse: “Se Gianni non c’è più, spero che anche sulla sua tomba oggi depongano dei fiori.” Quella volta attraversammo un momento di perplessità: i fiori legati con un nastro tricolore cui era appuntato un cartoncino con la nostra sigla, attirarono l’attenzione di due tizi che si avvicinarono. Non successe nulla. Nel 1944, in occasione degli scioperi del marzo, fu arrestato mio zio, subito rilasciato dopo un interrogatorio, ma furono arrestati anche Prina, Arosio, Guarenti e successivamente Gambacorti Passerini. Tutti avevano famiglia. Mogli e sorelle si misero in contatto con noi. Ricordo in modo particolare Elena Mauri Prina che, dopo il trasferimento del marito a S. Vittore, riuscì a stabilire qualche contatto grazie all’aiuto di un secondino per cui ci pervenne qualche messaggio. Fu la signora Elena che ci comunicò per prima, nel luglio, la notizia della fucilazione. L’aveva appresa da un’altra vedova che in quei giorni era a Carpi. Non rinunciò a collaborare, anche se doveva provvedere da sola alle tre figlie, e continuò anche dopo la Liberazione. Nel frattempo continuavo gli studi universitari. Non mi potevo permettere il lusso di perdere anni perché la mia famiglia aveva bisogno del mio lavoro. Cercavo di dare tutti gli esami nella sessione estiva per non indossare la sahariana nera delle giovani fasciste. D’estate bastava una giacca bianca e una gonna nera, all’ultimo momento mi mettevo attorno al collo il fazzoletto azzurro, ed era fatta. Debbo dire che dopo il 1943 all’Università Statale i professori chiudevano un occhio ed alcuni, come Antonio Banfi, li chiudevano entrambi. Dopo la laurea nel 1944, riuscii ad avere una supplenza al Ginnasio Zucchi. Qui incontrai Luigi Panzeri, Ugo Cappelli, Luigi Rodelli, Giulia Ferrario, tutti antifascisti convinti. Giulia Ferrario fu arrestata e atrocemente torturata a Milano. Luigi Panzeri, comunista, mi chiese un giorno di entrare a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola e a mia volta convinsi a collaborare anche una collega, Angela Maria Amirante, che aveva buoni motivi per essere antifascista: la madre era ebrea. All’inizio del 1945 due miei scolari di quinta ginnasiale furono arrestati con altri giovani in quanto facevano parte del Fronte della Gioventù (fondato da Eugenio Curiel, fucilato dai fascisti, medaglia d’oro della Resistenza) organizzato da Piero Gambacorti Passerini. Quando furono rilasciati e ripresero le lezioni mi chiesero di poter venire a casa mia. Volevano avvertirmi che erano stati costretti a fare il nome dei loro insegnanti, e quindi anche il mio. Li rassicurai: non lavoravo con il Fronte e quindi non sarei stata coinvolta nella faccenda. Quanto al resto, il nome Farè era abbastanza noto ai fascisti monzesi per i decenni di vita politica di mio zio, e quindi non rappresentava una scoperta. E venne il 25 Aprile, anzi per Monza il 26. Tutto sarebbe cambiato. Dopo il 1945 Era venuto il momento di fare scelte precise per me. Non potevo rinunciare all’attività politica e scelsi l’iscrizione al Partito Socialista di Unità Proletaria, nato dalla fusione del vecchio Partito Socialista Italiano e del Movimento di Unità Proletaria. Non fu una scelta difficile e non fu dettata da ragioni affettive. Che ne facesse parte anche mio zio non importava, ero convinta di quello che facevo. A questa scelta avevano contribuito le parole di compagni monzesi e non monzesi, tra cui Lelio Basso che durante la clandestinità avevo avuto modo di conoscere nello studio dello zio. La mia attività continuò su diversi binari: attività professionale come insegnante, attività politica e di partito, attività amministrativa come consigliere comunale, ma non dimenticai il movimento femminile. I gruppi di Difesa si trasformarono nell’ Unione Donne Italiane dove mi impegnai finchè mi fu possibile, a Monza e a Milano, dove incontrai e ritrovai amiche come Vera e Rita Grattarola, Elena Prina, Maria Rizzardi, Elena Citterio, Teresina Gelosa, ecc. Venne anche il momento di una grave crisi politica: la scissione del PSI nel quale non mi riconoscevo più e il passaggio al risorto PSIUP nel quale militai fino allo scioglimento. Del resto non era nato per durare, ma solo come momento di passaggio. Infine l’iscrizione al Partito Comunista Italiano. Oggi. Qualcuno mi ha chiesto cosa faccio oggi. La vita politica attiva mi è diventata difficile, il che non esclude la mia disponibilità per quanto mi è possibile. Continuo a vivere nel mondo della scuola, che mi ha dato in fondo molte soddisfazioni. Di quanti allievi sono rimasta amica!! Alcuni me li sono ritrovati accanto durante tante lotte politiche, altri no; ma senza falsa modestia sono sicura di aver seminato qualcosa. Se ripenso agli anni passati e confronto la situazione della scuola di allora con quella di oggi, credo di poter affermare che i primi scossoni al vecchio sistema autoritario, nozionistico, paternalistico, li abbiamo impressi noi. Poi il 1968 ha decisamente modificato la situazione. Ma c’è anche il rischio che, se altri non continuano l’opera, si ritorni indietro. Per questo rimango. Per quanto riguarda il mondo femminile, i primi passi verso la soluzione di tanti problemi sono stati fatti grazie ai Gruppi di Difesa della Donna e dell’UDI. Poi è venuto il femminismo che ha accelerato i tempi, ma anche in questo campo nessuna conquista è mai definitiva e bisogna continuare a lavorare. In fondo, la Resistenza continua. |
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Maria Galetti vedova Robecchi |
Facendosi coraggio a vicenda , trasportavano in tram borse misteriose a Cantù. Quando Maria seppe che il marito era morto a Dachau, svenne.
Maria Galetti vedova Robecchi, 74 anni Augusta Merati, 59 anni cugine, inseparabili nella vita di tutti i giorni e, da sempre unite da ideali comuni. Maria si rivolge alla cugina: “Ti ricordi Augusta nel ’44 quando siamo andate a Milano in tram per cercare tuo fratello al comando fascista in Questura”? Augusta: “È iniziato tutto la sera del sei gennaio ’44. Abbiamo avuto inaspettatamente la visita delle “SS” accompagnate dai fascisti di Muggiò. Su loro indicazione i tedeschi cercavano i miei due fratelli. Io ero giovane , avevo vent’anni, ma mi ricordo tutto come se fosse successo ieri. Hanno iniziato subito a cercare ovunque, rovistando in tutti i cassetti e in tutti gli armadi. Cercavano materiale antifascista. Dalle scale sentii arrivare mio fratello Attilio. Era stato all’oratorio del paese, stavano facendo le prove di uno spettacolo. Mio fratello entrò in casa con una pistola puntata alla schiena. Gli fecero qualche domanda e poi quaso subito lo portarono via. Il giorno dopo io e mia cugina Maria girammo tutti gli uffici di Monza , e di Milano e poi di nuovo a Monza per avere sue notizie. Scoraggiate e tristissime eravamo sedute nel tram che ci riportava a Monza di ritorno da Milano . I nostri occhi arrossati dal pianto incuriosirono un signore che ci chiese cosa ci fosse successo. Dopo avergli raccontato i fatti, questo signore, probabilmente fascista, ci accompagnò di persona alle carceri di Monza. Per risollevarci un pò ci offrì anche un caffè che noi rifiutammo. Attilio era veramente alle carceri di Monza. Rimase in quella cella per altri otto giorni e poi lo costrinsero ad arruolarsi volontario nell’esercito regolare, da dove in un secondo tempo fuggì per darsi clandestinamente all’organizzazione partigiana che operava in montagna.”
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Paola Giannella“Il castigo peggiore quando ero bambina: non andare ai comizi” |
Quindici anni di interrogatori nelle questure ed i lunghi periodi di confino le sembrano poca cosa.
Questa è la testimonianza rilasciata da una donna di 81 anni che fece la resistenza al fascismo fin dal suo primo apparire. La donna è PAOLA GIANNELLA, nata a Monza nel 1902, conosciuta anche come moglie di Amedeo Ferrari uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano monzese. Ecco il suo curriculum vitae quale appare dai documenti ufficiali: Arrestata nel 1927 e condannata nel 1928 ad un anno di reclusione per attività antifascista e per appartenenza al partito comunista; scontata la pena, viene arrestata una seconda volta dalla Questura di Monza per “Soccorso Rosso”; ritenuta elemento pericoloso viene deferita al “Tribunale Speciale” e condannata a due anni di confino a Lipari; nuovamente arrestata nel 1932 le vengono assegnati altri cinque anni di confino da scontare a Ponza e poi a Borre in Sardegna. Le fredde dichiarazioni burocratiche non lasciano certo trasparire quelli che sono stati i sentimenti di questa donna che crede di aver fatto e sofferto poco per la causa. Paola Giannella infatti parla serenamente di dieci-quindi anni della sua vita durante i quali venne sballottata per le questure e i luoghi di confino d’Italia. Racconta la sua storia con vivacità seguendo un filo conduttore molto preciso, il bel viso intelligente illuminato dal sorriso. “A sedici anni ero socialista (divenni comunista nel 1922) e partecipavo ai comizi e alle assemblee. Ai comizi mi piaceva andare fin da bambina. Quando mia madre voleva castigarmi per qualche birichinata mi diceva -Stasera non vieni con noi – io piangevo. I miei erano socialisti da sempre. Di mio padre, ricordo che aiutava molto in casa contrariamente alle abitudini dell’epoca che volevano l’uomo servito di tutto punto.” Sono belli questi racconti dai quali traspare la Monza degli anni anteguerra, una Monza conservatrice che guardava con diffidenza i giovani che frequentavano il ricreatorio laico diretto da Ettore Reina, ma anche una Monza operaia e progressista che aveva mandato in Municipio ben due sindaci socialisti. I primi anni del fascismo con il loro retaggio di minacce, intimidazioni, arresti, sono vissuti da Paola Giannella in prima persona. In quel periodo si trovava a Bergamo dove era stata costretta a riparare con il marito che aveva sposato civilmente. In seguito tornata a Monza sfugge ad un arresto nel quale sono coinvolti molti compagni della Brianza, ma viene poi arrestata ad Intra , al cappellificio Albertini. Un particolare significativo: in questa circostanza è lo stesso direttore della fabbrica che l’accompagna alla carrozza e, davanti a tutti, le dice: “Signora, stia tranquilla e torni presto; qui ci sarà sempre un posto per lei”. Il giorno dopo le fa avere la sua busta paga con dieci lire più del dovuto. Degli anni del carcere Paola ricorda le ansie, le paure, le sofferenze fisiche cometa fame, il freddo, un principio di tubercolosi ma anche la lealtà di alcune suore antifasciste del carcere di San Vittore e l’incontro con uno strano giudice che portava all’occhiello la “cimice” (era il distintivo del partito fascista). Questo il dialogo: “Signora lasci perdere, stia a casa sua, non son tempi per fare politica. Vede questo distintivo? Sa che cosa significa? Ed alla risposta “partito nazionale fascista” scuote la testa e dice: “purtroppo non finisce” Gli anni del confino: Lipari, Ponza, Sardegna, Basilicata, viaggi interminabili in treno e per mare, lunghe soste nelle stazioni, sguardi infastiditi della gente ma anche generosi gesti di solidarietà che scaldano il cuore. A Napoli, un ferroviere, saputo che era una confinata politica in viaggio di trasferimento, le rivolge a voce alta parole di simpatia e di incoraggiamento e nel frattempo le mette fra le mani un pacco di generi di conforto. “Finalmente il 25 luglio 1943, il sig. Mussolini – così lo chiama ironicamente Paola Giannella – è costretto a lasciare il Governo. Verranno tempi durissimi, ma la gioia grande di quei giorni è stata e sarà indimenticabile”. Il fascismo, quel fascismo che sembrava dovesse durare in eterno, era finito. Attualmente Paola Giannella vive tra Monza e Pegli in casa dei figli dove è di valido aiuto. Parla con affetto dei nipoti da buona nonna aperta e comprensiva. I giornali sono la sua lettura quotidiana ma ha anche letto i libri di Amendola, di Teresa Noce , di Lajolo, di Terracini. È interessata a tutto ciò che riguarda gli aspetti politici e sociali del mondo d’oggi e ne discute con il figlio, consigliere comunale comunista. È una donna “viva”. Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni |
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Maria Parma“Da Hartheim, tristissimo castello di eutanasia, il suo uomo non fece più ritorno” |
Si erano conosciuti ad una festicciola domenicale, lui suonava la chitarra e cantava le romanze con una bella voce da tenore.
Lei aveva iniziato a fare la guantaia a dieci anni. MARIA PARMA, è nata a Monza, seconda di cinque fratelli settantuno anni fa. “Mio padre era falegname e mia madre per arrotondare le entrate lavava la biancheria ad una famiglia di benestanti , erano i prestinai del cortile. All’età di dieci anni ho iniziato a lavorare come apprendista guantaia.” “Conobbi tuo padre a sedici anni durante una festicciola domenicale. Lui suonava la chitarra e cantava le romanze con una bella voce da tenore. Solo in un secondo tempo mi disse che la sua famiglia era socialista. Il fratello maggiore, Carlo, perseguitato dai fascisti era stato violentemente picchiato. Durante il fidanzamento, durato sette anni , non ho mai avuto la certezza che collaborasse clandestinamente con il partito Comunista, ma da sposati ne ho avuto le prove”.
Maria Parma vedova Bracesco, oggi nonna felice di quattro nipoti è instancabile. Lavora ancora, divide la sua giornata dedicandosi alla casa della figlia Milena ed a quella del figlio Luigi. Ogni anno, da sempre, partecipa al viaggio nei lager nazisti organizzato dall’Associazione Nazionale ex Deportati Politici di Sesto S G Monza. Il Castello di Hartheim in località Alkoven, è stato con Hadamar, Grafeneck, Sonnestein, centro di eutanasia e ospedale sperimentale per i medici nazisti: vi hanno trovato una morte “scientifica” un imprecisato numero di vittime selezionate con cura, tra cui più di trecento italiani. Si trova a pochi Km. Da Linz, immerso nel silenzio della campagna che degrada dolcemente verso il Danubio Testimonianza raccolta da Milena Bracesco |
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Matilde Parma“'SOCCORSO ROSSO' è stato il suo campo d'azione nella lotta partigiana” |
Matilde Parma ha guarnito cappelli per quarant’anni e poi ha preso le redini della famiglia del nipote rimasto vedovo prematuramente.
Invalida dal lavoro da oltre vent’anni, vive con il nipote Luigi figlio del caduto Enrico Bracesco, da nove anni. Nonostante la sua grossa difficoltà di camminare ha preso le redini della casa dopo la scomparsa della moglie di Luigi ed ha contribuito ad allevare ed educare i suoi due figli . Oggi ha settantatre anni. Alla nipote Milena che l’ha intervistata, ha raccontato:
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Elisa Pezzotta“Appena adolescente, diffondeva la stampa clandestina” |
La tragedia della giovanissima sorella deportata, innocente a Ravensbruk l’inferno delle donne, fu uno stimolo alla sua attività partigiana.
Elisa Pezzotta è una giovane donna di 57 anni nata a Urinano in provincia di Bergamo ma vissuta sempre a Monza nel quartiere di San Fruttuoso dove tuttora abita. Nata nel 1926 e perciò bambina e adolescente durante il ventennio fascista, partecipò attivamente alla Resistenza facendo parte della 150° Brigata Garibaldi. Di famiglia decisamente antifascista, il padre venne arrestato più volte, ebbe una sorella deportata a Ravensbruk tristemente conosciuto come l’inferno delle donne. Il racconto di Elisa comincia con la caduta del fascismo, 25 luglio 1943. Di quei giorni ha un ricordo vivissimo: il discorso pronunciato da Gianni Citterio in piazza Trento Trieste di fronte ad un mare di gente. Elisa era lì, aveva quindici anni “sembrava straordinario - dice - dopo tanti anni di silenzio di sussurri, di clandestinità, poter esprimere a viva voce quello che si pensava - abbasso il fascismo, viva la libertà -.” In settembre, ottobre - continua Elisa - si formarono a Monza i primi Gruppi Partigiani. Si raccoglievano fondi e viveri per le famiglie dei compagni più colpiti. La mia attività specifica era la distribuzione della stampa clandestina, soprattutto manifestini per i sabotaggi. Qui da noi si sabotavano molto i binari della ferrovia Monza-Como-Lecco di cui fascisti e nazisti si servivano parecchio. Il mio capo era mio padre che allora lavorava al laminatoio nazionale. Io lavoravo alla Motta panettoni come operaia e talvolta, di notte, facevo dei turni sempre in fabbrica, come crocerossina. Di quei tragici mesi - dice Elisa - i ricordi sono moltissimi. Che dire? Tremendo fu il giorno in cui venne arrestata mia sorella Santina nel marzo del 1944. Aveva quattordici anni e lavorava alla Magneti Marelli di Crescenzago . Era l’unica della famiglia che non si interessava di politica. Venne fermata per strada e…..sparì. Quando il Comune di Monza mandò a ritirare le sue carte annonarie capimmo che Santina era stata deportata. Per avere la conferma mio padre si recò alla Rondinella di Sesto dove c’era una caserma della Muti e lì vide sul registro il nome di Santina. Inveì contro i fascisti, li chiamò vigliacchi e traditori e corse il serio rischio di essere arrestato. Diciamo che fu salvato da un ufficiale tedesco che lo allontanò con la forza. La famiglia si divise: mio padre nella clandestinità, io sempre a Monza presso una zia, mia madre e l’altra sorella a Bergamo. Si tirò avanti così fino al 25 aprile 1945. - Dei giorni della Liberazione Elisa ricorda benissimo la resa della Casa del fascio che allora era situata in piazza Trento e Trieste, dove attualmente c’è l’Ufficio delle Imposte. “Da San Fruttuoso corremmo in piazza, eravamo tre ragazze su due biciclette. Subito andammo nella cantina dello stabile e vidi proprio con questi occhi molte tracce di sangue e di materia cerebrale sui muri. Sicuramente lì erano stati torturati molti nostri compagni. Il nostro sdegno era enorme…. Ma bisognava prendere le armi e ritornare di corsa a San Fruttuoso dove i partigiani aspettavano. Ai primi di maggio la famiglia si riunì. Mancava sempre Santina. Malgrado tutte le ricerche fatte, di lei non avevamo notizie. Ad ogni convoglio che arrivava si correva a vedere, a chiedere informazioni, ma…. Fino a settembre nulla di nulla. Finalmente, un sabato sera, tornavo con mio padre da una assemblea, fui informata da un ex deportato che Santina era viva e stava per tornare. Arrivò infatti pochi giorni dopo. Era in condizioni disperate: magrezza spettrale, cicatrici in tutto il corpo, privazioni di ogni genere ma…..era viva!! A San Fruttuoso si fece una grande festa all’unica donna del quartiere che tornava dai campi di sterminio. Col ritorno di Santina la guerra mi sembrò davvero finita”. Dopo la liberazione Elisa continuò a lavorare per dare il suo contributo alla causa. Fu responsabile del Fronte della Gioventù Comunista, fu per lunghi anni membro della Commissione Interna prima alla Motta, poi alla Stamperia Donatello, fu responsabile dell’Unione Donne Italiane di San Fruttuoso e ricorda con tenerezza le belle bandiere cucite e ricamate per l’Associazione. Attualmente, come è stato detto all’inizio, è una bella nonna di 57 anni con un marito, due figli, quattro nipoti e, come dice Elisa, una vita da pensionata. Gravi motivi di salute (è invalida) l’hanno costretta ad allontanarsi dalla politica attiva ma la “passione” è sempre la stessa. Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni |
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Maria Riva Biffi“Il sindacato è stato per lei una scuola di vita” |
Si riunivano nei cascinotti in mezzo alla campagna per organizzarsi. Propagandista clandestina, la paura era la sua compagna inseparabile, ma quando era necessario sapeva tirar fuori le grinfie.
Mi aspettavo persone anziane, ripiegato sui loro “amarcord”, spettatrici distratte della scena quotidiana. Mi sbagliavo e di molto. Queste donne che hanno partecipato in modo diverso alla Resistenza, sono lucide e attive da far invidia, ancora oggi. Le esperienze vissute hanno maturato in loro una coscienza politica, sociale, culturale che ha contribuito sensibilmente a mutare il ruolo femminile nel nostro contesto storico. Dalle loro testimonianze personali affiorano i germogli dell’emancipazione della donna e nello stesso tempo emerge il lato più umano, più accessibile della resistenza raccontata. Queste considerazioni le ho ricavate durante il colloquio con la signora Maria, Maria Riva in Biffi, settantanove anni portati con sorprendente disinvoltura. Mi complimento con lei per il suo aspetto fisico, per la vivacità del suo spirito. “Non mi scherzi, signora” mi risponde, ma il suo volto pacioso, coronato da ricci argentati, tradisce un certo compiacimento. Dura un attimo. Poi parte a spron battuto. “Io non ho fatto galera, ne altro. Ho cominciato a lavorare a dodici anni in uno stabilimento tessile a Crespi d’Adda, a sedici facevo già la col lettrice per la lega sindacale. Ricordo che andavamo dal capo lega Malenti, proprio quello che Amendola nomina nel suo libro, a portare i contributi. Spesso veniva anche il sindacalista Cocchi Renato, altro personaggio del libro di Amendola, a tenere dei comizi e poi si andava a Bergamo a fare le manifestazioni. Al Renato cantavamo “Quando Renato sarai al Parlamento, noi avremo l’aumento”. Che tempi quelli!
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Angela Ronchi“L’unica volta che sparò si spaventò moltissimo” |
È contraria a qualsiasi tipo di violenza. Si dedicò al sindacato ed alla causa antifascista con abnegazione rinunciando anche ai sentimenti privati.
Ho avuto con Angela Ronchi due brevi frettolosi incontri, se si considera quanti anni difficili e i molti ricordi abbiamo dovuto condensare in queste poche righe. Eppure il contatto è stato immediato e facile. Angela dice subito, (come quasi tutte le donne incontrate che sono state attive nell’antifascismo) che non crede di aver fatto niente di speciale da trascrivere o registrare, ed io non posso che stupirmi della sua sincera modestia. Racconta la sua esperienza in fretta, come per non farmi perdere tempo e nastro, (una parte dell’intervista è stata registrata) e penso a tutte le pagine e all’inchiostro sprecato intorno a stupide storie di divette e principesse scritte su rotocalchi che vanno a ruba. Con rammarico sintetizzo.
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Elena Vicari“Un lungo pellegrinaggio per cercare il figlio diciassettenne” |
Dopo molte peripezie venne a sapere che era morto da eroe gridando “Avanti, avanti”
Questa testimonianza mette in evidenza i sentimenti e le emozioni provate e sofferte da una donna, una delle migliaia di madri italiane, che visse la Resistenza non in prima persona ma attraverso la partecipazione e la morte di un figlio. La donna è Elena Vicari, madre di Edmondo, morto a 17 anni, il 25 settembre 1944, nel combattimento di Gravellona Toce. Elena Vicari mi mostra con commozione ed orgoglio il ritratto del figlio, le sue decorazioni, i diplomi al merito e, con molta tenerezza, le uniche due cartoline ricevute da lui ed un biglietto con queste parole: “Cari genitori non state a pensare male di me; sto compiendo il mio dovere; sono arrivato bene, sto bene e non ho bisogno di niente. Un augurio a papà per San Giuseppe”. Dopo quasi quarant’anni tutto è conservato con cura e affetto. - “Mio figlio – dice Elena Vicari – lavorava alla Breda. Al campo volo. Era con Enrico Bracesco, Camisasca, Samiolo che, come lui , moriranno nella guerra di Liberazione. Erano i suoi compagni , ma anche i suoi maestri. Noi non sapevamo nulla della sua attività politica, però Edmondo parlava di questi suoi compagni con molta ammirazione e rispetto. Una sera non tornò a casa. Allora abitavamo in via Gottardo dove mio marito aveva un negozio per la vulcanizzazione della gomma. Io trepidavo, era già passata l’ora del coprifuoco ed Edmondo non si vedeva... Non tornò quella sera nè mai più. L’indomani mio marito andò alla Breda; seppe che Edmondo , con altri, si era licenziato. Era andato, come si diceva allora, “in montagna”. Era il marzo 1944. Sono passati quarant’anni ma l’emozione sul viso della donna è visibilissima. “Tenemmo la notizia segreta a tutti ed intanto ci davamo da fare per avere notizie. Sapevamo vagamente che era in Piemonte nella zona dell’Ossola. Giunse l’Agosto. Decidemmo di andare a cercarlo.” La donna, aiutata dal marito, ricorda tutti i particolari di quelle due giornate. Le località dove si fermarono, Villa d’Ossola, Borgo Ticino, Omega, Forno, 84 km. A piedi in due giorni. E del tutto inutile. Edmondo non c’era in quelle valli, il suo gruppo si era trasferito altrove. Era vivo però e stava bene. Tornammo a Monza. Un giorno arrivò a casa nostra la polizia fascista. Voleva sapere ad ogni costo dove fosse nostro figlio. Fu così che mio marito finì in prigione per reticenza. Ero disperata, mio marito in prigione e di mio figlio nessuna notizia. Il mio pensiero era sempre fisso lì, anche se andavo a lavorare, accudivo alla casa, allevavo gli altri due figli e ne aspettavo un quarto. Il 30 settembre trovai infilato sotto la saracinesca del negozio un biglietto, mi si diceva con belle parole che mio figlio era morto. Il biglietto purtroppo era autentico, eppure la speranza non mi lasciava. Non so perchè , ma speravo sempre che qualche cosa cambiasse. Infatti, un giorno, presentatami in Comune per il ritiro di uno stato di famiglia, vidi che Edmondo risultava trasferito a Baveno. Mi sentii sconvolgere dentro. Con mio marito andai subito a Baveno. Ci indirizzarono all’Ospedale e lì seppi con certezza che mio figlio era morto e come era morto.” La donna si ferma; l’antico dolore le oscura il volto. Riprende a fatica a raccontare ancora di Edmondo, del suo coraggio in combattimento. “I suoi compagni – dice – lo chiamavano “Volante” perchè era sempre pronto a correre. Le sue ultime parole nel delirio furono: Avanti, avanti!” Ora Edmondo Vicari riposa con gli altri 82 caduti nel Campo dei Martiri della Libertà in Cimitero a Monza. “Quando venne portato nella sua città ed insieme agli altri gli vennero tributati solenni onoranze funebri cominciai a sentire un pò di pace. Mio figlio era tornato a casa.” Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni |
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Maria Vismara“Seri granda, forta e spavalda” |
Una staffetta Partigiana con una bella voce e senza paura. Andava a ballare al “Berin” per raccogliere preziose informazioni dai tedeschi.
Maria Vismara è nata a Triuggio nel 1913, unica femmina di cinque figli. La famiglia si è presto trasferita a Monza perchè i fratelli più grandi avevano trovato lavoro all’Hensemberger. Dal 1940 al 1950 Maria è stata operaia alla Breda di Sesto ed ha partecipato alla lotta partigiana come staffetta nella 108° Brigata Garibaldi. Dal 1952 al 1972 ha lavorato per il Comune di Monza, prima come accompagnatrice di ragazzi handicappati alla scuola Tarra di Milano, poi all’Ufficio di Igiene. Ora è in pensione e vive con il figlio in una cascina del parco. E’ una bella donna, alta, con grandi occhi scuri e capelli bianchi ricciuti raccolti con una forcina. Ha una grande carica di spontaneità ed allegria, le piace cantare con la sia bella voce limpida interrotta da improvvisi momenti di malinconia quando i ricordi si fanno duri e toccano la sua vita di donna. Testimonianza raccolta da Silvia Lalia |
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